Rappresentazioni neurali: come sai quello che sai

Rappresentazioni neurali

Riccardo di Roma, in una sua email mi chiedeCome sappiamo ciò che sappiamo? Come si costruisce nel nostro cervello un’idea, un’opinione, un giudizio, riguardo un prodotto o un concetto?
A questa domanda voglio rispondere in modo approfondito, perché se da un lato può apparire ovvio che ciò che incide fortemente sui nostri processi cognitivi è il nostro percorso di esperienze vissute, è anche vero che in pochi sanno cosa si intende biologicamente per “esperienza” e come tecnicamente l’esperienza diventa la nostra finestra attraverso cui guardare il mondo.

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Cosa cambierebbe a livello del tuo cervello, e quindi del tuo modo di pensare e di vivere, se tu fossi nato in un mondo popolato di sole linee verticali? E, ancora più interessante, cosa succederebbe se, d’un colpo, ti ritrovassi davanti ad una sconosciuta, mai vista e incredibile linea orizzontale?

No, questa domanda non è pleonastica come potrebbe sembrare. E ti dirò di più: esiste qualcosa di molto simile ad una risposta certa. Nel 1970, Blakemore e Cooper allevarono infatti dei gattini in un mondo fatto di sole linee verticali. Le pareti presentavano solo linee verticali, i vestiti degli umani che li nutrivano erano a linee verticali, e probabilmente anche la ciotola in cui mangiavano aveva lo stesso stile. Ecco, crescendo in un ambiente di questo tipo, i piccoli felini non hanno potuto fare esperienza del concetto di ‘orizzontalità’.

Quando furono introdotti nel mondo reale, dove alla verticalità si affianca l’orizzontalità, i gatti – oltrepassato un breve periodo di smarrimento – riuscirono a vivere una vita normale. Ma la loro funzione visiva era irrimediabilmente alterata: riuscivano a vedere un bastoncino verticale, ma non riuscivano a scorgere il medesimo bastoncino se messo orizzontalmente. Questo meccanismo non si può spiegare affermando semplicemente che certi neuroni, per via della poca o nulla attività, si siano degenerati, per il semplice fatto che non sono state individuate delle aree corticali inattive silenti.

Il discorso è invece diverso: la corteccia visiva si era semplicemente abituata all’ambiente circostante. Di più: se il gatto fosse stato esposto a delle linee orizzontali abbastanza presto, quando cioè la sua area cerebrale era sufficiente malleabile, alcuni neuroni sarebbero riusciti a specializzarsi in extremis nel riconoscimento delle linee orizzontali. Questa, dunque, è un’ulteriore conferma del fatto per cui l’esperienza, e quindi l’interazione attiva tra sistema nervoso e ambiente circostante, è un passaggio obbligato e cruciale per il nostro sviluppo neurologico.

Non siamo, insomma, quelle macchine fotografiche che pensiamo di essere: il nostro cervello lavora piuttosto in un continuo processo di integrazione e di riempimento, con l’intervento continuo della memoria, per dare senso a ciò che ci circonda. Per quale motivo, del resto, siamo tutti portati, di tanto in tanto, a vedere dei volti nelle nuvole? Siamo dunque in grado di categorizzare quello che vediamo perché ne abbiamo già fatto esperienza, e questo non ha a che fare puramente con un substrato neurologico, ma anche con la struttura stessa del nostro cervello (per saperne di più si vedano i lavori di Abel et al. 1995, di Sitnikova et al. 2006, e di Doursat & Petitot 2005).

Non deve però stupire il fatto che eseguire degli studi più profondi in questo senso sia perlomeno difficile, se non del tutto impossibile, principalmente per degli ovvi limiti etici. Imbastire degli esperimenti simili a quelli felini eseguiti da Blakemore e Cooper su dei bambini ci potrebbe per esempio far capire come nascono e si sviluppano le distinzioni sensoriali, ma questo, innegabilmente, supererebbe di parecchio ogni nostro sacrosanto principio etico.

Va però sottolineato che ci sono altri modi per trovare delle risposte interessanti e piuttosto appaganti. C’è per esempio uno studio condotto da dei ricercatori della Stanford University School of Medicine, Niell e Smith, volto ad analizzare per l’appunto la formazione e il coinvolgimento delle distinzioni sensoriali. Partendo dal presupposto per cui questo tipo di analisi richiede molto tempo, e che quindi non può essere eseguito su nessun essere umano – men che meno sui dei bambini – per questo studio sono stati presi in esame dei pesci zebra, ovvero dei piccolo pesci d’acqua dolce. Queste cavie sono state selezionate durante il loro sviluppo, sono stati immobilizzate e – attraverso un photo imagining dei loro neuroni, caricati opportunamente con un indicatore fluorescente – sono state sottoposte ad una serie di stimoli differenti, così da osservare in tempo reale l’attività elettrochimica conseguente.

In questo modo, dunque, si è potuta osservare la nascita di intere popolazioni di neuroni, e lo svilupparsi di connessioni tra la retina e la parte del cervello adibito all’informazione visuale. (Può essere utile sapere che i pesci zebra, anche detti danio zebrati, per la loro capacità di rigenerare tutti i loro tessuti, per la loro velocità di riproduzione e per la trasparenza dei loro embrioni, costituiscono di fatto l’animale più utilizzato per gli studi sulla differenziazione cellulare, e non solo).

Grazie a questo studio, per la prima volta, è stato possibile osservare come le popolazioni di neuroni rispondono a certuni stimoli, soprattutto se messi di fronte a dei concetti nuovi. E sta qui il punto più interessante della situazione, come dimostrano a gran voce gli studi contemporanei:

"Non esistono rappresentazioni innate: tutto quello che sappiamo nasce dall’esperienza"

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In caso contrario, e quindi senza esperienza, non possono semplicemente esistere: non ci sono concetti, pezzi di conoscenza o idee che possiamo considerare come non appresi.

Vuoi sapere perché possiamo dire questo? Beh, a favore di questa affermazione, in realtà, ci sono ben sei ragioni, e te le vado a presentare immediatamente.

Ragione uno: le reti neurali come Approssimatori universali

Guardiamo prima di tutto alle reti neurali più complesse: sull’onda di quanto affermato da Hornik, Stinchcombe & White nel 1989 , da Zhang, Stanley e Smith nel 2004 e da Elman et al nel 1996, possiamo dire che queste sono degli Approssimatori universali, in quanto possono approssimare qualsiasi funzione continua nel loro ambiente, a patto di avere a disposizione una sufficiente quantità di tempo. Una rete neurale di questo tipo, capace dunque di approssimare qualsiasi tipo d’ingresso, può essere interpretato come l’analogo neurale della famosa macchina di Touring.

La definizione di Approssimatori universali si sposa bene con tutte le reti neurali di tre o più strati. Va a questo proposito sottolineato che la nostra corteccia cerebrale è composta da innumerevoli reti neutrali sovrapposte a sei strati, nelle quali ogni neurone può arrivare ad avere più di 10mila connessioni. Allo stesso tempo, ci sono molti reti neurali a 3 strati nelle strutture sottocorticali, e ci sono altre reti non saldate che possono offrire un’ulteriore plasticità aggiuntiva, così da moltiplicare l’elasticità dell’insieme.

Gli Approssimatori universali, in altre parole, sono degli straordinari fogli vergini. A questo punto è importante notare come il cervello degli umani approssima solo le funzioni che questi ultimi compiono e non altre, e questo a causa delle caratteristiche peculiari del corpo in cui si trovano, nonché delle modalità attraverso le quali essi interagiscono con l’ambiente circostante. Come affermato da Rumelhart nel 1989, insomma, l’ambiente in cui viviamo è formato nella nostra mente dall’interazione tra il nostro corpo e il mondo, essendo in fin dei conti quello che lo studioso definisce come ‘un set di funzioni stocastiche variabili nel tempo in uno spazio costellato da informazioni’ che il nostro cervello si trova ad approssimare.

Insomma, da un certo punto di vista, si può dire che siamo definiti da quello che ci circonda e che quello che noi definiamo è ciò che ci circonda.

Ragione 2: il modo in cui le rappresentazioni neurali riflettono l’ambiente circostante

La rappresentazione neurale è sì arbitraria, ma non quanto lo è, per esempio, la simbolizzazione linguistica. Questo perché le reti neurali interpretano l’esterno in modo induttivo e associativo. Su queste basi, il nostro cervello riflette il mondo reale in molti modi: come dichiarato da Kohonen & Hari nel 1999, tutto questo si basa su un processo cognitivo che porta a delle azioni di self-organization e self-organizing maps.

La struttura della rappresentazione mentale, dunque, emerge dal connubio tra la struttura rappresentata e quello che si può fare con essa.

In questo senso, dunque, non si può parlare in nessun modo di pura arbitrarietà, per quanto non si possa parlare, a rigore, nemmeno di logica.

Ragione tre: come muoiono le cellule neurali

Come muoiono le cellule del nostro cervello? Beh, dall’adolescenza in poi ci dicono che ad ucciderle è l’alcool, e perché no, anche le droghe, persino quelle leggere. Giusto, e per questo lo ripetiamo pari pari anche noi alle nuove generazioni. In questi avvertimenti, però, ci si scorda dire una cosa importante che, di fronte ad un ascoltatore particolarmente ‘difficile’, potrebbe finire per minare l’efficacia del discorsetto: non si dice cioè che, anche nella vita adulta, c’è un continuo processo di neurogenesi.

In passato si pensava che la neurogenesi fosse un processo relegato alla sola fase dello sviluppo. Oggi, invece, sappiamo che esiste anche una neurogenesi adulta, che prende luogo nell’ippocampo e nei ventricoli laterali. Delle nuove cellule cerebrali nascono dunque anche durante la nostra piena maturità.

Ma che cosa, invece, uccide queste nuove cellule, mettendo da parte birra e quant’altro? Ebbene, della morte di questi neuroni non possiamo che incolpare altri neuroni, i quali tendono a liberarsi di quelle altre cellule che non vengono immediatamente accettate da reti neurali già esistenti. Se un neurone si limita a consumare energia e risorse senza venire inglobato in un network, e dunque senza mettersi al lavoro, viene eliminato.

Ma perché un nuovo neurone viene o non viene ammesso in una rete neurale già in funzione? Qual è la discriminante che fa la differenza tra un neurone vivo e un neurone morto?

Ebbene, di fatto è colpa nostra, perché quel neurone verrà connesso ad una rete solo al momento del bisogno: se dunque io oggi non imparerò nulla, e non richiederò nessuno sforzo aggiuntivo al mio cervello, un neurone probabilmente si troverà disoccupato, il che equivarrebbe ad un’immediata condanna a morte.

La vita monotona, dunque, è una serial killer di neuroni.

Ragione quattro. La natura delle idee

Mettiamo in chiaro una cosa: ogni rappresentazione neurale è specifica, e quindi pressappoco richiusa in sé stessa. Ciò che si impara facendo una determinata azione, dunque, non servirà per compierne un’altra differente. Questo non significa però che il progresso di una rete neurale non si rifletta anche in quello delle altre, in un continuo ripetersi di azioni sempre più complesse che contengono e arricchiscono le precedenti.

Platone, Cartesio e Kant erano convinti che gli umani nascessero con delle idee innate, comprese cioè nel “pacchetto”. Ci sono voluti decenni affinché gli scienziati cognitivi riuscissero ad affermare e quindi a provare il contrario, eppure ancora oggi è ancora vivo e vegeto il pensiero per il quale la nostra genetica causi quello o quell’altro disordine psicologico, da curare tendenzialmente con una pillola – la quale dovrebbe riportare alla ‘normalità’ uno squilibrio di ordine chimico che causa il problema psicologico.

Peccato che, stando agli studiosi più moderni, dediti allo studio dei ‘sistemi dinamici’ tutto questo non ha senso: lo squilibrio chimico non può causare un disordine psicologico, no, lo squilibrio è il disordine psicologico, in quanto la mente non è il prodotto secondario del sistema nervoso, è il sistema nervoso.

Ragione cinque: uno sguardo alle reti neurali artificiali

Per ottenere una comprensione più completa delle reti neurali biologiche si utilizzano dei modelli matematici detti ‘reti neurali artificiali‘, i quali permettono ai singoli neuroni di riprodursi, di assorbire altri neuroni, di crescere e via dicendo. In questo caso, ovviamente, si eliminano completamente le rappresentazioni innate. Va inoltre sottolineato che non si può programmare o inserire informazioni in modo diretto in questi modelli, è invece necessario allevarli.

Si guardi cosa è stato fatto da Kohonen, presso l‘Università Tecnologica di Helsinki: il suo gruppo di ricerca ha dato vita a quella che è stata ribattezzata SOM, ovvero Self-Organizing Map, un rete neurale basata su un algoritmo di apprendimento non supervisionato. La SOM è stata istruita a recepire 39 tipologie di misurazioni relativi alla qualità di vita, alla qualità dell’educazione e via dicendo, tutti dati provenienti dalla Banca Mondiale. Ebbene, la seguente è la mappa generata dalla rete.

Difficile capire il messaggio rappresentato in questo modo. E se invece di decidesse di riportare tutto su un planisfero come questo?

Ragione 6: Come sappiamo quello che sappiamo

Sulla base di quanto visto finora, si può affermare che le reti neurali sono più malleabili di quanto si voleva credere fino ad un passato molto recente. A conferma di ciò, si può ricordare che, se la corteccia visiva di un individuo viene danneggiata alla nascita, si possono poi individuare delle funzioni proprie della corteccia visiva in quella uditiva. Lo stesso effetto è replicabile a livello chirurgico, reindirizzando i nervi ottici, e questo ci dimostra nuovamente che non c’è niente di speciale e di peculiare nelle reti neurali della corteccia visiva, o in qualsiasi altra area della corteccia.

Presupposti come questi hanno portati Beatty a formulare la Neuronal Empiricism Hypothesis, secondo la quale l’intera corteccia cerebrale altro non è che un’unica rete neurale sì segmentata, ma non controllata e, come dicono gli anglosassoni, assolutamente self-organizing. E questo è valido non solo per le reti a sei strati della corteccia cerebrale, ma anche per le strutture più semplici.

John Locke e David Hume, remando contro Cartesio, parlavano delle idee, ovvero di quei simboli duraturi creati dalle sensazioni; negli anni Novanta Barsalou parlò invece di ‘simboli percettivi’, mentre oggi ci riferiamo a questi simboli definendoli semplicemente come ‘rappresentazioni mentali’. Eppure c’è una differenza tra quanto indicato da Hume e quanto invece spiegato da Barsalou. Se per Hume le idee sono costruite come copie meno vivaci ma comunque esaustive di impressioni sensoriali, con Barsalou si parlava invece di rappresentazioni schematiche. Da una parte, dunque, sta l’apprendimento tipicamente induttivo, mentre dall’altra sta l’apprendimento marcatamente associativo.

Per l’empirista Hume, di contro a quanto affermato da Cartesio, Spinoza e Leibiniz, la mente era una tabula rasa, senza alcuna idea innata. Con la vita quella stessa tabula diviene però un magazzino di immagini, emozioni, odori e via dicendo, raggruppando qualsiasi sensazione incontrata. Nel caso di Barsalou si ha invece un’architettura cognitiva ricca di approssimazioni analogiche, le quali possono essere ri-associate per riempire gli inevitabili vuoti di queste rappresentazioni schematiche.

Si capisce dunque perché, nei processi per omicidio, negli Stati Uniti non basta più un singolo testimone oculare per imputare il reato. E per lo stesso motivo, quando alla centrale di polizia, davanti al testimone, sono poste delle persone tra le quali individuare l’eventuale omicida, i poliziotti sono costretti per legge a dire al cittadino che ‘la persona che sta cercando di identificare potrebbe non essere presente’. Questo perché, senza tale precisazione, il cervello umano sarebbe forse tentato di ricostruire la propria memoria, per trovare un senso che – forse – non c’è.

In altre parole e da un altro punto di vista, seguendo l’opinione di Hume, si poteva credere che la mente dei bambini memorizzasse qualsiasi esperienza, per poi passare al momento del bisogno all’astrazione, all’induzione e all’associazione delle proprietà di quanto memorizzato; nel caso di Barsalou scopriamo invece che la mente approssima le proprietà stesse. Più tardi, dunque, queste approssimazioni possono essere utilizzate per creare i ‘ricordi’, ovvero gli insiemi di immagini, sapori, profumi e sensazioni. Ricordare, insomma, è già ricostruire.

Ognuno di noi, nei suoi primi mesi di vita, sviluppa un proprio personale codice neurale, approssimando per associazione colori, forme, temperature e via dicendo, in base alla propria esperienza e all’ambiente che lo circonda. Una volta che tutte queste approssimazioni/idee divengono stabili, esse iniziano automaticamente a processare e a interpretare le nuove sensazioni.

Ecco, ora sai 6 cose nuove sul tuo cervello, e soprattutto ora sai perché sai quello che sai: per il ‘semplice’ fatto per cui tu percepisci il mondo esterno integrando delle sensazioni fugaci con delle rappresentazioni mentali più durature, partendo, di fatto, da dei condizionamenti che tu stesso hai creato in passato.

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